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Confini in tempo di Corona virus

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Confini in tempo di Corona virus
Confini in tempo di Corona virus - © Adobe Stock/Vojtech Vlk

Sono tanti i punti di riflessioni provocati dai recenti eventi drammatici della pandemia di coronavirus (COVID-19) e le misure restrittive assunte da vari stati per cercare di arginare il contagio. Da una parte commenti sull’esperienza e dramma attuale, dalla riscoperta del valore delle relazioni umani, alla presenza visibile della morte, dall’equilibrio fra sicurezza collettiva e libertà individuali, all’importanza della musica nella società dei balconi … Dall’altra riflessioni su come sarà la nostra società quando tutto sarà (si spera il più presto possibile) finito.

A riguardo c’è da chiedersi come gli eventi di queste settimane stiano cambiando la nostra concezione del concetto di confine. Come risaputo il governo austriaco, nella speranza di limitare il contagio nel suo territorio, ha chiuso unilateralmente i confini con l’Italia, bloccando il passaggio di molti cittadini italiani e controllando i TIR provenienti dal belpaese, attivando a tal fine quelle barriere costruite al confine del Brennero, ma poi mai usate, ai tempi del cospicuo flusso di richiedenti asilo degli anni passati. Molti altri paesi dentro e fuori la Unione Europea hanno a loro volta chiuso i loro confini, dalla Germania, alla Polonia, dal Marocco agli USA, a volte con decisioni autonome, altre volte in accordo con gli stati confinanti. Sembrerebbe perciò che in risposta alla pandemia si stia riaffermando il concetto di confine e si stia tornando a un mondo dove gli stati nazione controllano i loro confini, considerati strumento chiave per determinare e proteggere il proprio territorio e popolazione. Per inciso a riguardo andrebbe anche segnalato con che animo quei politici altoatesini che enfatizzano in modo particolare il ruolo dell’Austria come madre patria, vivano queste decisioni di Vienna, che hanno sempre pesanti ripercussioni sull’Alto Adige.

Al di là di quest’ultima questione puerile di natura prettamente locale, è difficile valutare oggi la validità di tali sviluppi e chiusure di confini, che in un certo senso rispecchiano su scala internazionale quello che gli stati fanno al loro interno per isolare le aree più infette. Di certo va segnalato che la chiusura unilaterale del confine del Brennero non ha bloccato i contagi in Austria, mentre ha aggiunto disagi economici e sociali al suo vicino italiano, già provato dalla grave situazione sanitaria nel paese. D’altra parte, l’Italia stessa a suo tempo aveva bloccato i voli dalla Cina – fatto che non ha evitato che il Belpaese fosse la prima nazione europea in cui il virus si sia propagato in modo massiccio.

Ad ogni modo, non si tratta tanto di fare una valutazione dell’efficacia di tali misure, quanto di capire cosa c’è dietro il concetto di confine e che ruoli svolgano le frontiere nazionali alla luce della pandemia. Innanzitutto, va detto che i confini che si vedono sulle mappe geopolitiche e che oggi vari paesi hanno chiuso non esistono per natura, ma sono piuttosto il risultato dell’opera dell’uomo, che trasforma luoghi ed elementi topografici in linee di delimitazione materiali (valga a riguardo l’esempio “locale” del mito del confine naturale dell’Italia al Brennero). Poi, come sottolineato da P. Wlasak in un articolo apparso su Politika 2017, il concetto di confine è legato all’atto di demarcare un’area, che deriva dal bisogno umano di protezione e sicurezza esercitato attraverso l’esercizio del controllo (e quindi una manifestazione di potere) su un territorio.

La questione è quindi come queste linee artificiali possano svolgere questa funzione di protezione in un mondo globalizzato e interconnesso, dove i problemi (oggi il COVID-19, fino a ieri il cambiamento climatico, domani chissà) non sono esterni, ma sono intrinsecamente comuni a tutti gli esseri umani, indipendentemente da quale lato dei confini si viva, e che singoli Stati o comunità da soli non possono contenere all’esterno. Nel mondo attuale i confini non sono più legati allo slogan “non passeranno” lanciato contro un esercito nemico; perciò chiudere i confini non basta a difendere la società. Piuttosto che chiusure unilaterali contro paesi e persone vicine, per combattere il coronavirus sono necessari sforzi e collaborazione internazionale, perché il virus sarà veramente sconfitto solo quando si potrà tornare a uscire di casa e muoversi non solo in città e sul territorio nazionale, ma anche in Europa e nel mondo. Esempi in questa direzione sono i recenti aiuti arrivati all’Italia da Francia, Cuba, Germania, Cina e Russia, la collaborazione della Provincia con il governo austriaco per far arrivare mascherine e dispositivi di protezione in Alto Adige, così come alcune azioni intraprese dall’Unione Europea, quali l’acquisto di una scorta strategica di attrezzature e dispositivi medici da distribuire in tutta l’Unione e i fondi messi per la ricerca di un vaccino.

Quindi, invece di vedere nella pandemia un riaffermarsi degli stati nazione dove le frontiere sono viste come barriere principalmente difensive, i drammatici eventi attuali legati al coronavirus invitano a ripensare il concetto di confine, in cosa consista la sua funzione protettiva e come possa svolgerla. È necessario riflettere sull’opportunità di inquadrare i confini in modo nuovo, non più come strumento di difesa, ma come luogo di incontro e di cooperazione per affrontare problemi che sono globali e che ci riguardano tutti.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul quotidiano “Alto Adige”, il 31 marzo 2020.


Andrea CarlàAndrea Carlà è senior researcher all’Istituto sui diritti delle minoranze, dove si occupa della interazione tra la tematica della protezione delle minoranze, politiche d’integrazione, e questioni di sicurezza. Questo contributo, come in generale il suo lavoro di ricerca, nasce dal suo interesse per cercare di capire come favorire una convivenza pacifica tra stati e persone e ridurre le barriere fra di loro.

 

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Citation

https://doi.org/10.57708/b6601095
Carlà, A. Confini in tempo di Corona virus. https://doi.org/10.57708/B6601095

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