La carenza di ossigeno nel cervello può portare a gravi danni, ma il rischio è difficile da quantificare. Un giovane ricercatore sperimenta nuovi approcci.
Esame ecografico durante uno studio nel terraXcube; il simulatore di ambienti estremi permette di studiare in condizioni controllate come il corpo umano reagisca alla mancanza di ossigeno.
Credit: Eurac Research | Ivo Corrà
La carenza di ossigeno nel cervello, spesso causa di danni neuronali permanenti, si verifica nella metà dei pazienti gravi ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Non esiste ancora un indicatore semplice e affidabile per rilevarla. Kai Riemer, esperto di ultrasuoni, vuole svilupparne uno. Sta lavorando al suo metodo con l’aiuto di persone sane che si espongono all’aria rarefatta del terraXcube.
Prima di trasferirsi in Alto Adige nello scorso giugno, Kai Riemer, interessato al terraXcube in quanto scienziato, appassionato escursionista e fotografo di montagna, ha trascorso molti anni come ricercatore a Londra. Questo potrebbe essere all’origine del suo understatement (dopo aver adattato le sue spiegazioni al livello di comprensione di una persona non addetta ai lavori, si scusa di non essere “così bravo a spiegare”). Quello che sicuramente è riconducibile al suo lavoro di ricerca a Londra è l’entusiasmo di Riemer per gli ultrasuoni: uno strumento diagnostico versatile, mobile – i dispositivi più piccoli non sono più grandi di un cellulare – e poco costoso che, come spiega lui stesso, per molto tempo si è scontrato con i limiti della mancanza di capacità dei computer, ma che oggi, con computer immensamente migliorati e sempre più evoluti, “non ha limiti”. Riemer è diventato un esperto di imaging del flusso sanguigno e di imaging a ultrasuoni a super-risoluzione presso l’Imperial College di Londra, dove ha conseguito il dottorato e in seguito ha condotto ricerche in vari laboratori
Esistono varie possibilità per rimediare alla mancanza di ossigeno. Ma per poterle valutare, bisogna prima essere in grado di misurare i cambiamenti che producono.
Kai Riemer
In qualità di borsista Marie Curie all’Istituto di medicina di emergenza in montagna, sta applicando questa esperienza a un problema che colpisce molte persone gravemente malate e gli alpinisti: la carenza di ossigeno nel cervello. In particolare, sta lavorando a metodi per quantificare in modo affidabile e non invasivo l’ipossia cerebrale che può causare danni permanenti ai neuroni e, nel peggiore dei casi, la morte cerebrale. Questo è il suo obiettivo per i prossimi due anni. In prospettiva, però, si è già prefissato il prossimo: “Quello che voglio fare è curare l’ipossia, cioè rimediare alla mancanza di ossigeno. Ci sono varie opzioni. Ma per valutare quanto siano adatte, bisogna prima essere in grado di misurare i cambiamenti che producono”.
Se l’ipossia si verifica in persone sane perché salgono ad altitudini in cui il corpo ha meno ossigeno a disposizione, il rimedio è semplice: scendere ad altitudini inferiori. Di solito in montagna si usa un questionario per stabilire quando è consigliabile farlo: hai mal di testa? Hai capogiri? “Si tratta di una valutazione qualitativa, non quantitativa, che si basa esclusivamente su un giudizio soggettivo”. Nei reparti di terapia intensiva, invece, i medici usano un’ecografia del nervo ottico per valutare in che misura la mancanza di ossigeno nella testa abbia portato alla dilatazione dei vasi sanguigni e quindi all’aumento della pressione cranica. Tuttavia, anche questo metodo non è realmente oggettivo, spiega Riemer: “In realtà è confermato dalla letteratura specializzata che i risultati variano notevolmente a seconda di chi esegue l’esame. Alcuni medici non vedono alcun effetto, altri ne vedono uno notevole”. Questa mancanza di chiarezza potrebbe essere legata al fatto che le immagini ecografiche sono bidimensionali, sospetta Riemer, e la verifica di questo aspetto fa parte del suo progetto di ricerca. “Viene misurato il diametro della cosiddetta guaina del nervo ottico che è una sorta di guaina intorno al nervo; si presume quindi che sia un cilindro perfetto. Ma se non lo fosse? Un’immagine tridimensionale potrebbe forse fornire una valutazione più accurata? Non lo so ancora: è solo un’ipotesi”.
E ne ha una seconda: “perché entrambe possono essere sbagliate”. L’obiettivo non è migliorare un metodo esistente, ma svilupparne uno completamente nuovo basandosi non sul nervo ottico, ma sul flusso sanguigno. Entrambi sono i cosiddetti “surrogati” dell’ipossia: parametri più facili da misurare e che indicano in modo affidabile la grandezza che si vuole effettivamente osservare – “proprio come l’ombra di un albero rispetto all’albero: se l’ombra scompare, possiamo dire con un discreto grado di certezza che l’albero non c’è più”, dice Riemer. E usa un paragone altrettanto vivido per descrivere la propagazione dell’onda d’impulso su cui si baserà il suo nuovo metodo: “Se si fa muovere un tubo da giardinaggio con un movimento, l’onda viaggia attraverso il tubo e, quando raggiunge l’estremità, viene nuovamente riflessa. La propagazione di quest’onda può essere misurata e calcolata. Nel caso dell’onda sfigmica, cioè dell’onda che dall’aorta si sposta fino al sistema periferico, essa cambia a seconda della rigidità o dell’elasticità dei vasi sanguigni o della loro dimensione. E poiché i vasi della testa si espandono durante l’ipossia, mi aspetto che questo cambiamento possa essere riconosciuto dalla propagazione dell’onda sfigmica”. Si tratta di un’ipotesi “molto speculativa”, aggiunge: “Ben fondata, ma speculativa”. La misurazione a ultrasuoni sarebbe molto più semplice con questo metodo che sull’occhio; il dispositivo dovrebbe essere posizionato sul collo per un massimo di trenta secondi. Se funzionasse come previsto da Riemer, il risultato mostrerebbe in modo molto preciso quanto il cervello abbia già reagito all’ipossia. “Questo potrebbe essere espresso su una scala da zero a dieci, o da un semaforo: verde - giallo - rosso. Gli alpinisti potrebbero così sapere chiaramente se il loro cervello è ancora al sicuro o se è meglio scendere”.
Poiché i vasi della testa si dilatano in caso di ipossia, mi aspetto che questo cambiamento possa essere riconosciuto dalla propagazione dell’onda sfigmica.
Kai Riemer
Il suo interesse però non è la medicina d’alta quota. L’altitudine gli offre solo l’opportunità di studiare l’effetto della privazione di ossigeno su persone sane; le persone in terapia intensiva di solito soffrono di così tanti disturbi che è impossibile filtrare quali cambiamenti siano effettivamente dovuti all’ipossia. Ma anche negli studi in montagna ci sono fattori che possono confondere: le condizioni meteorologiche, lo sforzo dell’ascesa... Il centro per la simulazione di climi estremi invece, consente un controllo completo: tutti gli effetti indesiderati possono essere eliminati. L’idea di svolgere ricerche all’Istituto di medicina di emergenza in montagna è venuta a Riemer dal terraXcube.
Tuttavia, il fatto che il laboratorio, unico nel suo genere, si trovi nel piccolo capoluogo di una splendida regione montuosa, è stato un aspetto molto gradito in un momento in cui, dopo anni trascorsi in una metropoli, desiderava di nuovo un po’ di natura. Riemer è cresciuto in una zona verde di Berlino, vicino a molti laghi, e tutta la sua famiglia ama camminare. Due volte all’anno organizzavano gite in montagna. La sua passione per la vita all’aria aperta ha assunto una nuova dimensione quando ha iniziato a scattare fotografie di paesaggi e natura nel Regno Unito, tutte pubblicate sul suo sito e su Instagram. Nel Regno Unito ha organizzato anche dei “mini tour d’avventura”, come la scalata in 24 ore di tutti e 15 i Welsh3000, monti sui 3.000 piedi (900 metri) nel Galles settentrionale. “Qui tutti ne ridono, ma il paesaggio è fantastico”. Riemer ha organizzato la sfida in Galles come evento di raccolta fondi per la British Heart Foundation. In Alto Adige sta progettando qualcosa di simile per il soccorso alpino.
A Londra non è più tornato, anche se continua a collaborare con gli scienziati dell’Imperial College; i costi sono troppo elevati. “In generale questo è un grande problema oggi: gli stipendi nella ricerca non hanno tenuto il passo con il costo della vita”. È anche per via di questa “realtà della vita” che Riemer offre immagini professionali con i droni: lo diverte molto e lo aiuta a finanziare il costoso hobby della fotografia. Come giovane ricercatore, bisogna essere pieni di risorse. O entrare nel mondo dell’industria, dice Riemer, in questo caso ci si potrebbe permettere anche Londra. Ma al momento non è un’opzione. Ha un altro grande obiettivo in mente.
Kai Riemer è specializzato nell’imaging del flusso sanguigno e nell’imaging a ultrasuoni a super-risoluzione ed è attualmente borsista Marie Curie all’Istituto di medicina di emergenza in montagna di Eurac Research. In precedenza, ha lavorato presso l’Imperial College di Londra, dove ha completato il suo dottorato di ricerca.